È difficile definire in modo univoco la violenza psicologica. Si tratta infatti di un fenomeno complesso, trasversale all’età e al genere, che può assumere diverse forme ed esprimersi in differenti contesti: in famiglia, nei legami di coppia, a lavoro, a scuola, nel web.
Una cosa è però certa: questo abuso non si realizza con parole, sguardi e atteggiamenti in modo sporadico, ma intenzionalmente e ripetutamente, in modo incessante. La violenza psicologica, che spesso assume le vesti della manipolazione affettivo-relazionale, si esercita ad esempio con messaggi ambigui, sguardi minacciosi, menzogne e offese. Sono comportamenti che variano in intensità, frequenza e possono risultare più manifesti o più celati. Talvolta sono seguiti da attenzioni, affetto e molti sorrisi, finalizzati a rendere la relazione confusa agli occhi di chi la sta vivendo. La parola chiave: ambiguità.
Il manipolatore agisce infatti attraverso la seduzione, l’ironia e il sarcasmo, talvolta i silenzi, con l’intenzione di confondere, offendere, illudere e intimorire l’altro, assoggettandolo a una relazione potenzialmente malata e rischiosa. In particolare, la finalità è assumere il potere a partire dal rendere gli altri oggetti, in trappola, in una trama dalla quale c’è il rischio poi di non riuscire più ad uscire. E con il passare del tempo si crea una dipendenza affettiva che purtroppo fa leva sui punti deboli e sui bisogni più intimi di ciascun individuo. È quindi una manipolazione esercitata in tanti momenti e in modo silenzioso, invisibile, che tuttavia si incarna nel corpo e arriva dritta all’anima della vittima, ferendola profondamente.
La persona che subisce violenza sperimenta diverse sensazioni ed emozioni: si sente in colpa, confusa, poi ha paura e talvolta prova un senso di disagio o vergogna. Impotente, rimane spesso priva di parole. In più, i dubbi e l’insicurezza aumentano insieme al bisogno di vicinanza emotiva. Ed è proprio questa esigenza su cui l’abusante fa leva: è un continuo contrabbandare il suo affetto.
La violenza psicologica rimanda quindi a un ab-uso, cioè a un uso eccessivo e distorto dell’affettività, del legame, della fiducia da parte di una persona o di un gruppo di persone ai danni dell’altro.
Tale abuso sembra inoltre non portare con sé prove e segni visibili, eppure i suoi effetti sono estremamente reali: si tratta di lividi dell’anima e nell’anima. Trasparenti e incolore, abitano nel profondo lasciando spesso la persona con le labbra serrate. Questo silenzio si presenta soprattutto nei bambini che, non avendo gli strumenti per fronteggiare l’abuso, manifestano sovente il disagio e la violenza delle parole attraverso somatizzazioni e/o comportamenti disfunzionali che intaccano diverse aree della vita, dalla scuola al corpo, fino alle relazioni sociali. Compare quindi un disturbo, diventando il corpo canale di comunicazione e nuovo porta-voce del soggetto.
Non è infrequente, infatti, che la violenza chiami altra violenza, talvolta rivolta a se stessi e al proprio fisico: ad esempio, la ferocia con cui dei ragazzini definiscono "balena" una compagna si intreccia e si scontra con la violenza con cui quest’ultima smette di mangiare, o viceversa mangia e di conseguenza aumenta di peso. Minacce, insulti, derisioni possono del resto portare un bambino non a denunciare l’aggressore ma a mangiare, riempiendo il vuoto del cuore, l’insicurezza, la voglia di sparire, con il cibo.
In questi casi è dunque il corpo che comincia a parlare per il soggetto che soffre e che non riesce a tradurre in parole il suo dolore. Purtroppo c’è il rischio che continue violenze psicologiche portino a sviluppare disturbi del comportamento alimentare, come per denunciare l’abuso che si sta subendo o si è già subito. Una richiesta d’aiuto che quindi non arriva dalla parola, bensì dal corpo che diventa perciò il veicolo di un dolore insopportabile e che così, in qualche modo, "può dare parola alla sofferenza muta di un soggetto manipolato", inconsapevolmente caduto nella trappola costruita ad hoc proprio per non lasciare segni visibili. E invece, attraverso il sintomo, il bambino – o l’adolescente – grida la sua verità nella speranza di trovare un interlocutore (in primis, sicuramente, il genitore) che abbia voglia di prestare ascolto, accogliente e non giudicante, al silenzio di chi come lui ancora non ha voce per dir-si. E con occhi aperti, pronti a vedere la fatica di un’età evolutiva già complessa, è possibile cogliere come in quel corpo, dietro il silenzio, vi siano parole ancora congelate ma in attesa di un ascolto gentile.
A cura di: Associazione Pollicino e Centro Crisi Genitori Onlus
24 Giugno 2021
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